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TESI DIECI

La preghiera non può essere una petizione rivolta a una divinità teistica perché agisca nella storia umana in un determinato modo.

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Di tutti i temi di cui mi sono occupato, quello della preghiera e della sua efficacia ha sempre suscitato maggiori reazioni. Credo sia perché, in ultima istanza, la preghiera è l’attività attraverso cui le persone definiscono chi è Dio per loro e cosa intendono con la parola “Dio”.

Dietro l’inquietudine che le persone provano quando la pre­ghiera è oggetto di discussione c’è sempre la loro idea di Dio. La maggior parte delle definizioni che si danno della preghiera poggia su una definizione teistica di Dio. Si percepisce che Dio è come un re o forse il proprio capo o magari il proprio padre, vale a dire che Dio è una figura esterna che possiede una grande autorità. Così, si concepisce la preghiera come un’attività rivolta

a una figura esterna che possiede un potere soprannaturale di cui non dispone chi prega. La preghiera diventa allora una petizione di chi è impotente verso il potente, perché agisca in modo tale da fare per il richiedente ciò che lui non può fare da sé e anche ciò che desidera che succeda. In tale concezione, Fattività della lode, che tanto spesso accompagna la preghiera, diventa una sorta di adulazione manipolatrice.

Nel peggiore dei casi, per quanto la preghiera si nasconda dietro parole e frasi di devozione, diventa la richiesta dell’orante perché si compia la sua volontà anziché quella di Dio. Forse la preghiera alla divinità teistica presuppone che la volontà di chi prega e quella di Dio siano uguali. Se così fosse, allora la preghiera diventerebbe un’attività in cui è l’essere umano a dire all’essere divino come agire. Si tratta di una concezione in cui la preghiera risulta, in fin dei conti, idolatria, un tentativo di imporre a Dio la volontà umana. E l’idolatria che consiste nel trasformare Dio in colui che farà quello che dico io, e si basa sulla presunzione che io sono superiore a Dio, che io so cosa è meglio. E in tal modo si assume anche il fatto che Dio sia un’entità separata, che non è necessariamente in contatto con l’umano, eccetto che attraverso interventi miracolosi.

Qualcuno ha descritto questo genere di preghiera come “lette-re a un Dio-Babbo Natale”.

«Caro Dio,

sono stato un bambino buono, o una bambina buona. Merito una ricompensa. Per favore, fa’ per me quanto segue.

Ti lascerò un regalo sotto l’albero di Natale.

Baci.

Giovanni, o Maria o Raul..».

E una descrizione che alcuni potranno trovare offensiva, specialmente se rivela il loro modo di pregare, ma, a giudicare dalle risposte che ricevo, non è una descrizione inesatta. La vita è così piena di tragedie, di malattie e di dolore che nel più profondo di noi sappiamo che questo tipo di preghiera è un’illusione. Tutta-via, il dolore della vita fa sì che, invece di riconoscere questo carattere illusorio, le persone pensino di essere così cattive da meri-tare non la benedizione di Dio, ma la sua ira.

Sono state due esperienze della mia vita, una professionale e l’altra personale, a farmi abbandonare questa preghiera teistica spingendomi verso una concezione assai diversa. Voglio condividerle con voi.

La prima risale al periodo in cui ero già passato dal servizio presbiterale in una città della Virginia centrale a quello in una chiesa di Richmond, la capitale dello Stato. Ricevetti una telefonata di una donna con cui avevo strettamente collaborato nella mia precedente destinazione. Aveva circa otto anni più di me, era sposata con un medico di campagna ed era madre di tre bambini. Chiamava per dirmi che era ricoverata all’ospedale universitario, più o meno a un’ora da Richmond. «Ho davvero bisogno di parlare con te», mi disse. «Che succede, Cornelia?», le chiesi, cogliendo la sua angoscia. Disse che preferiva non parlarne al telefono, ma che sperava potessi andarla a trovare il prima possibile. Lo feci il giorno dopo. Quando entrai nella sua camera in ospedale, vidi che aveva un aspetto incantevole come sempre, ma che lo splendore del suo sorriso era scomparso. Mi sedetti accanto al letto e lei cominciò a raccontarmi la sua storia.

Aveva cominciato con la tosse. Le aveva prestato poca attenzione, ma, poiché non passava, alla fine suo marito, in quanto medico, aveva insistito sulla necessità che venisse visitata. Era stato preso un appuntamento, erano stati fatti gli esami ed era stata annunciata la terribile diagnosi. Aveva una forma di cancro molto aggressiva e incurabile. In base alle statistiche, le restavano meno di sei mesi di vita. Dopo aver reagito all’impatto della notizia, le chiesi di spiegarmi quali fossero i suoi sentimenti. E lo fece. Come avrebbe potuto suo marito continuare a esercitare senza di lei? Era un medico rurale che visitava a domicilio in tutta quella montagnosa regione e i suoi pazienti lo chiamavano a qualsiasi ora della notte. Non avrebbe più potuto fare ciò che faceva prima se lei non era in casa con i bambini. Mi parlò di ciò che significava sapere che non avrebbe visto i suoi figli prendere il diploma o la laurea. Che non avrebbe mai conosciuto le spose che avrebbero accompagnato i suoi figli nella vita, i loro percorsi professionali, né i nipoti che le avrebbero dato. Parlò di ciò che voleva dire rendersi conto che la sua vita sarebbe stata così breve, che la sua morte avrebbe segnato

tutti i membri della sua famiglia in maniera dolorosissima. Parlò del significato che la sua morte avrebbe avuto per i suoi anziani ge­nitori. Era la conversazione più profondamente sincera che avessi mai avuto. Quando si sta con un’altra persona sulla frontiera tra la vita e la morte, cadono tutte le facciate, svanisce ogni presunzio­ne. In un momento così, due persone si relazionano con un’onestà radicale. Cornelia e io percorremmo la storia della sua vita, le sue speranze e le sue paure per quasi tre ore. Era come se il tempo si fosse fermato, talmente profonda era la comunicazione.

Quando giunse l’ora di lasciarla per fare ritorno a casa, mo­dificai il mio atteggiamento e passai ad agire più come prete che come amico. Suppongo che avessi la necessità di fare qualcosa per alleviare la mia stessa angoscia. Così dissi: «Cornelia, posso pre­gare per te?». Non ebbe nulla in contrario. Se avevo la necessità di pregare, era contenta di potermi compiacere. Così le presi la mano, posai la mia mano sul suo capo e pronunciai la preghiera che mi sembrava appropriata in quella circostanza. Fu un susse­guirsi di devoti stereotipi che avevo appreso nell’esercizio del mio ministero. Quando terminò la preghiera, la lasciai per far ritorno a casa, promettendo di tornare a trovarla.

Guidando verso casa, riesaminai la mia esperienza. Era stato un incontro profondo tra due persone al limite tra la vita e la morte. Tuttavia, la preghiera finale non era stata all’altezza dell’esperien­za. Qual era stata la vera preghiera in questo incontro? mi doman­dai. Era stata la conversazione che avevamo avuto, così profonda e vivificante? O erano state le parole pronunciate prima di anda­re via? Quale delle due cose aveva dato più vita, e quale l’aveva ridotta? Quale delle due aveva ampliato l’amore e quale l’aveva represso? Quale delle due ci aveva chiamato entrambi verso un senso più profondo di ciò che siamo e quale ci aveva reso meno umani? La risposta a queste domande era chiaramente a favore della conversazione, non della preghiera. Cosicché “preghiera” cominciò ad avere un senso più ampio. Recitare preghiere non era la stesa cosa che pregare. Scrissi il mio primo libro a partire da questa esperienza. S’intitolò Honest Prayer[1]  Da questo momento, la preghiera iniziò a essere per me non qualcosa da dire, ma qualcosa da vivere. Questa è la distinzione che tutti dobbiamo fare se vogliamo intendere cos’è la preghiera. La seconda esperienza risale agli inizi degli anni ‘80, quando la mia prima moglie, che si chiamava Joan, ricevette una diagnosi di cancro, con la previsione di un’aspettativa di vita di «meno di due anni». La notizia divenne pubblica quasi nello stesso momento in cui la ricevetti, in quanto la privacy è molto limitata se si è un personaggio pubblico. Essendo io già un noto vescovo dello Stato del New Jersey, e avendo pertanto una certa rilevanza sociale, si organizzarono in tutto lo Stato gruppi che pregavano per noi. Alcuni erano episcopaliani, altri cattolici e alcuni interconfessionali. Molte persone mi scrissero per assicurarmi che potevo contare sulle loro preghiere. Apprezzai tutti questi gesti, perché erano un’espressione di amore e di preoccupazione per me e per mia moglie. Quando mia moglie superò il termine previsto, arrivando al terzo anno dalla diagnosi, queste persone che avevano pregato individualmente e in gruppo iniziarono a prendersi il merito del prolungamento della sua vita: «Le nostre preghiere la stanno mantenendo in vita», scrivevano; «Dio sta rispondendo alle nostre preghiere». Sembrava loro molto chiaro. Mia moglie visse sei anni e mezzo dopo la diagnosi, e ne fui grato, ma non potei evitare di domandarmi che razza di Dio fosse quello che quelle buone persone pregavano. Avrebbero pregato per mia moglie se io non fossi stato una persona nota, presumibilmente un uomo di successo e socialmente rilevante? Pensai: supponiamo che un net-turbino di una delle città più povere del paese abbia una moglie malata di cancro. Chiaramente pochi, al di là dei suoi parenti più prossimi, ne avrebbero notizia. Le concederebbe Dio un minor tempo di vita o una morte più dolorosa per il fatto che non ci sia molta gente a pregare per lei? Dio ha ricompensato mia moglie con più tempo di vita perché occupavo un posto rilevante ed ero famoso? Dio certifica forse la condizione sociale? Se lo pensassi per un solo momento, Dio mi apparirebbe così immorale che smetterei immediatamente di credere in lui. La preghiera, allora, non può essere più potente ed efficace per accumulazione. Dio non può premiare qualcuno solo perché è diventato importante in termini umani. Cos’è allora la preghiera? Non sono le richieste degli umani a un Dio teistico nell’alto dei cieli affinché intervenga nella storia o nella vita di chi prega. La preghiera è piuttosto lo sviluppo della coscienza che Dio opera attraverso la vita, l’amore e l’essere di tutti noi. La preghiera è presente in ogni azione che fa sì che la vita migliori, che il dolore sia condiviso o che ci si faccia coraggio. La preghiera è sperimentare la presenza di Dio, la quale ci porta ad unirci gli uni agli altri. La preghiera è quell’attività che ci fa riconoscere che «è dando che si riceve», per usare le parole di san Francesco. La preghiera è più nella vita che viviamo che nelle parole che diciamo. Per questo san Paolo ha potuto esortarci a «pregare incessantemente». Ciò non significa che dobbiamo recitare preghiere ogni momento. Significa che dobbiamo vivere le nostre vite come una preghiera, camminare attraverso la tragedia e il dolore sapendo che in realtà non procediamo da soli. La preghiera è sapere e capire che possiamo essere le vite attraverso cui il divino entra nell’umano. La preghiera è il riconoscimento che viviamo in Dio, che è la Fonte della nostra vita, la Fonte del nostro amore e il Fondamento del nostro essere. E questo che alla fine possiamo dire di essa. La preghiera è qualcosa che viviamo, molto più di qualcosa che facciamo.

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[1] J. S. Spong, Honest Prayer,Seabury Press, New York 1973.

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Brano tratto dal libro "Oltre le religioni" ed. Gabrielli Editori

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