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TESI SEI

L’interpretazione della croce come sacrificio per i peccati è pura barbarie: è basata su concezioni primitive di Dio e deve essere abbandonata.

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Nel libro dell’Esodo si racconta che l’inquietudine del popolo giunse a limiti pericolosi allorché Mosè rimase a lungo assente per ricevere da Dio la Torah e i dieci Comandamenti. Per calmare la propria ansia, il popolo andò dal sommo sacerdote Aronne, fra­tello di Mosè, e gli chiese di costruire un idolo, un vitello d’oro, per avere una divinità che si potesse vedere. Così Aronne fece e, quando il vitello d’oro venne terminato, il popolo danzò intorno all’idolo dicendo: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!» (Es 32,1-6).

Mosè tornò dal popolo proprio in quel momento, portando, secondo quanto narra la storia biblica, due tavole di pietra in cui erano scritti i dieci Comandamenti. Dinanzi all’atto d’idolatria, spezzò le tavole al suolo e si infuriò con il popolo, il quale, se­condo il racconto, soffrì l’ira di Mosè e di Dio finché finalmen­te Mosè disse che sarebbe tornato dal Signore e avrebbe cercato di realizzare un'«espiazione» per il popolo (Es 32,30). In questo antico riferimento notiamo che l’espiazione ha a che vedere con il perdono. Ha a che vedere con un Dio che offre una seconda opportunità. Quando lo Yom kippur - il giorno di espiazione - venne introdotto nel culto ebraico, era questo, secondo il Levitico, il suo scopo: celebrare il perdono di Dio, non il suo castigo (Lv 23,23ss). Gli ebrei chiamavano lo Yom kippur “il Giorno di espiazione”, non “il Giorno dell’espiazione ”, perché il perdono non è un fatto puntuale nel tempo, ma un processo permanente.

Lo Yom kippur includeva il sacrificio di animali che rappresentavano i sogni umani di perfezione. Questi animali dovevano essere fisicamente perfetti. Venivano esaminati scrupolosamente per certificare che sui loro corpi non vi fossero cicatrici né contusioni e che non si fossero mai rotti un osso. Certificata la perfezione fisica, si poteva allora affermare la perfezione morale di queste creature. Il ragionamento era complesso, ma logico. Gli animali sono al di sotto del livello umano per capacità di assumere decisioni. Non potendo scegliere di fare il male, si poteva dire di loro che in certo senso erano moralmente perfetti. Pertanto, questi animali potevano rappresentare simbolicamente la perfezione cui anelano gli esseri umani. Cosicché, nel Giorno ebraico di espiazione, gli esseri umani potevano entrare alla presenza di Dio, malgrado fossero peccatori, perché lo facevano sotto il simbolo di una creatura perfetta fisicamente e moralmente.

Quando i gentili conobbero questa pratica, pensarono che gli animali fossero sacrifici richiesti e che dovessero presentarli come offerta a Dio per essere perdonati. Questi animali sarebbero stati il prezzo che Dio reclamava per offrire il suo perdono.

Nella liturgia dello Yom kippur, nel I secolo, i due animali erano un agnello e un capro. Si sacrificava l’agnello, gli veniva estratto il sangue e il sommo sacerdote, dopo essersi sottomesso a un’elaborata purificazione cerimoniale, entrava nel Santo dei santi, il santuario interno del Tempio, il luogo più santo, dove si trovava il trono terreno di Dio, chiamato «la Sede della misericordia». Versava allora in questo luogo il sangue dell’agnello perfetto di Dio, fino a ricoprire la Sede della misericordia. Ciò significava che il popolo, indipendentemente da quanto si fosse allontanato dalla volontà di Dio, poteva continuare a entrare alla sua presenza, in quanto si avvicinava «attraverso il sangue dell’agnello perfetto».

Lo Yom kippur aveva allora a che vedere con la riconciliazione, con la vita umana che si unisce a Dio. Non aveva a che vedere con il castigo.

Quando il rituale dell’agnello era ultimato, il secondo animale, il capro, era condotto al sommo sacerdote, dinanzi all'assemblea del popolo. Il sommo sacerdote, afferrando le corna dell’animale, iniziava a offrire preghiere di confessione in nome del popolo. Il simbolo qui operante era che il popolo veniva liberato di tutti i suoi peccati, che venivano caricati sulla testa e sulle spalle del capro. Il quale allora, come portatore dei peccati del popolo, riceveva le grida di maledizione della gente, che ne invocava la morte. Ma l’animale non era sacrificato, bensì veniva fatto passare tra l’assemblea e condotto nel deserto, portando su di sé i peccati del popolo. Così, il popolo restava puro e libero dal peccato, almeno per un giorno. Lo Yom kippur si riferisce allora al popolo che torna a unirsi a Dio. Non ha nulla a che vedere con il castigo.

Al momento dell’elaborazione dei vangeli, le immagini dello Yom kippur vennero più volte trasferite nel racconto di Gesù.

E' Paolo, nel racconto della crocifissione, a dare il via a questo processo nella prima Lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3). E un chiaro riferimento all’azione liturgica dello Yom kippur. Più tardi, Marco usa la parola «riscatto» per riferirsi alla morte di Gesù (Me 10,45). Una volta ancora, si tratta di un concetto ripreso dalla liturgia dello Yom kippur. Quando viene scritto il quarto Vangelo, verso la fine del I secolo, il suo autore mette in bocca a Giovanni Battista, la prima volta che vede Gesù, questa interpretazione, con le parole: «Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). Tali parole derivano direttamente dalla liturgia dello Yom kippur.

Vi sono altri luoghi in cui la liturgia dello Yom kippur sembra avere dato forma al racconto su Gesù. Quando Pilato presenta Gesù alla moltitudine, la gente risponde lanciando maledizioni e invocando la sua morte. «Crocifiggilo, crocifiggilo», si suppone che gridi la gente. I lettori ebrei riconosceranno tutta questa scena come qualcosa ripreso direttamente dalla liturgia dello Yom kippur. Colui che carica su di sé i peccati merita la crocifissione (Me 15,13; Mt 27,22).

L’inclusione della storia di Barabba nel racconto della passione potrebbe essere un altro riferimento allo Yom kippur (Me 15,6ss). Barabba è un nome formato dalle parole ebraiche o aramaiche “bar”, che significa “figlio”, e “abba”, che significa Dio o padre. Così Barabba significa, letteralmente, “figlio di Dio”. Di modo che i vangeli presentano due “figli di Dio” al momento della crocifissione, nello stesso modo in cui nello Yom kippur vi erano due animali. Nei vangeli, uno dei “figli di Dio”, Gesù, viene sacrificato e l’altro, Barabba, resta libero. Potrebbe essere questo un altro luogo in cui i simboli dello Yom kippur hanno dato forma al racconto della passione? Io credo di sì.

Le generazioni successive di cristiani gentili, che non erano consapevoli della tradizione ebraica dello Yom kippur, sottoposero questi simboli a una rozza interpretazione letterale e svilupparono le idee ora associate alla cosiddetta “espiazione vicaria”.

Il concetto inizia a svilupparsi a partire dall’idea della deprava-zione degli esseri umani, caduti, si diceva, nel “peccato originale” a causa della disobbedienza umana alle leggi di Dio. Era stato detto ad Adamo ed Eva: «Non dovete mangiare del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino». Il frutto dell’albero, l’albero della conoscenza del bene e del male, era proibito sotto pena di morte (Gen 3,1-7). Si pensava che, al momento di trasgredire questa norma, si fosse rotta la perfezione originale della creazione di Dio. Allora, gli esseri umani disobbedienti erano stati allontanati dalla presenza di Dio nel giardino dell’Eden, e obbligati a vivere «a est dell’Eden»[1]. Erano talmente corrotti dal peccato originale che solo Dio avrebbe potuto recuperarli, attraverso un suo intervento. Dal momento che il castigo per il loro peccato era più di quanto qualsiasi essere umano avrebbe potuto sostenere, si sviluppò l’idea che Dio avrebbe messo il suo figlio divino al posto dei peccatori, che lo meritavano. Cosicché venne disposto che ci fosse un sostituto e Gesù si trasformò nella vittima dell’ira divina. Dio punì Gesù invece di punire il peccatore che lo meritava. I cristiani iniziarono a dire: «Gesù ha sofferto per me». E la frase «Gesù è morto per i miei peccati» diventò il mantra della vita cristiana, ma a un prezzo terribile.

La teologia dell’espiazione ha segnato profondamente la for-ma che avrebbe adottato il cristianesimo. Come ho detto in una delle tesi anteriori, Dio è diventato un mostro incapace di perdo-no. Prima di concedere il suo perdono, questa divinità castigatrice esigeva una vittima, un sacrificio umano, un’offerta di sangue. Non era più un Dio della seconda opportunità.

Gesù si è trasformato nella vittima cronica del castigo di Dio. Il divin figlio di Dio ha ricevuto il castigo del divin padre.

D’altro lato, questa teologia non ha creato un mondo di discepoli, ma di vittime. Siamo diventati i responsabili della morte di Gesù. Gli assassini di Cristo, pieni di colpa.

Come abbiamo già visto, le implicazioni di questa teologia sono onnipresenti nella tradizione cristiana. Con il tempo, questa teologia ha fatto sì che la nostra principale risposta nel culto diventasse quella di presentare suppliche a Dio perché abbia misericordia. «Signore, pietà; Cristo, pietà; Signore, pietà». Abbiamo ancora nella nostra liturgia questo triplice “kyrie”, anche ripetuto nove volte. «Kyrie eleison» è semplicemente la forma greca di «Signore, pietà».

Che razza di Dio è questo di fronte a cui ci vediamo ridotti a mendicanti servili che supplicano misericordia? Nel caso di un bambino spaventato dinanzi a un padre abusatore sarebbe, sì, appropriata una richiesta di misericordia, come sarebbe appropriata nel caso di un pregiudicato al cospetto di un giudice che può condannarlo a morte. Ma tale atteggiamento sarebbe appropriato nel caso di un figlio di Dio che si trova dinanzi a colui che viene concepito come “la fonte della Vita”, “la fonte dell’Amore” e “il fondamento dell’Essere”? Non lo penso.

L’espiazione vicaria è sbagliata sotto tutti i punti di vista. Il nostro problema non è quello di essere peccatori caduti da una perfezione originale in qualcosa chiamato “peccato originale”. Il nostro problema è che siamo essere umani incompleti che anelano a essere di più, a raggiungere la pienezza. Non abbiamo bisogno di essere risollevati da una caduta che non abbiamo mai sofferto. Abbiamo bisogno di essere accettati e amati semplicemente per ciò che siamo, per arrivare a essere tutto ciò che possiamo essere. Neppure possiamo essere “reintegrati” in una perfezione che non abbiamo mai avuto.

Un cristianesimo basato sull’idea di una espiazione vicaria è un cristianesimo basato su una visione inesatta e poco appropriata di ciò che significa essere umani. Una buona teologia non può mai essere costruita su una cattiva antropologia. Non siamo peccatori caduti che hanno bisogno di essere salvati. Siamo esseri umani incompleti, che hanno bisogno di pienezza.

Questa differenza è cruciale, e il cristianesimo che sarà capace di riconoscerla sarà quello che sopravvivrà e perdurerà nel futuro.

 

 

[1] Titolo di un romanzo di John Steinbeck. In italiano: La valle dell’Eden, Bompiani, Milano 2014.

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Brano tratto dal libro "Oltre le religioni" ed. Gabrielli Editori

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