TESI UNDICI
La speranza della vita dopo la morte deve essere per sempre separata dalla moralità del premio e del castigo come sistema di controllo della condotta umana. Pertanto la Chiesa deve abbandonare la sua dipendenza dalla colpa come motivazione del comportamento.
Nella liturgia cristiana, si percepisce frequentemente Dio come colui che tutto vede, come il giudice che tutto sa, come qualcuno che è pronto a emettere una sentenza in base alla nostra condotta. Di questo Dio si crede che conservi i registri delle nostre azioni fino alla data di oggi, i quali determineranno il nostro destino
definitivo, cioè se saremo con i santi nella gloria o con i dannati a soffrire le pene dell’inferno. Difficilmente si può credere in un Dio simile quando assumiamo la consapevolezza delle dimensioni dell’universo. Dove abiterebbe questo Dio che tutto vede? Al di sopra della terra? Bene, ciò collocherebbe Dio in un qualche luogo tra il sole e il nostro pianeta. Al di sopra della nostra galassia? Bene, ciò lo collocherebbe nello spazio intergalattico. Oltre l’universo? Bene, ciò lo collocherebbe così lontano che sarebbe difficile credere che anche i capelli del nostro capo sono tutti contati. Questa immagine di Dio era adeguata a una cosmovisione premoderna. Non è adeguata alla nostra.
Esistono anche altri problemi rispetto a questa interpretazione di Dio come giudice della nostra colpa e delle nostre malefatte da cui si suppone che dipenda il nostro destino. Nel XIX secolo, gli esseri umani hanno cominciato ad accettare l’esistenza di un profondo condizionamento sociale della condotta. Non esistono due esseri umani che nascano uguali. Su quale base allora, si darà il giudizio individuale di ciascuno? La disparità nella distribuzione della ricchezza è enorme. Metà del mondo muore di fame mentre l’altra metà è a dieta per abbondanza di cibo! Vi sono ugualmente grandi differenze di capacità intellettuale. Alcuni nascono più brillanti di altri. Grandi sono le differenze quanto ad alimentazione, a educazione e alle opportunità che si hanno. Se si possiede molto, la tentazione di rubare è quasi irrilevante. Se non si ha niente, se la sopravvivenza è una lotta quotidiana, la tentazione di rubare è molto più forte. Può Dio giudicare qualcuno senza considerare tali circostanze? Quale padre educherebbe ai “valori morali” vedendo i propri figli o figlie denutriti, immersi nella miseria, con scarse possibilità di sfuggire alla propria condizione? Può il giudizio essere giusto se è basato solo sulla condotta individuale?
Nel XX secolo, il mondo occidentale ha scoperto quanto pro-fonda sia l’interdipendenza psicologica umana. Se un bambino ha sofferto abusi, gli studi indicano che questo bambino avrà un’alta probabilità, crescendo, di trasformarsi in un abusatore. Giudicherà Dio il comportamento di questo adulto solo su presupposti moralistici, senza alcuna considerazione delle ragioni per cui questa persona si è trasformata in un abusatore? Chi ammazza un altro essere umano è l’unica persona colpevole di questo crimine? Considerare la vita solo in base alla condotta e alle sole azioni è sancire un mondo radicalmente ingiusto. Se è questo quello che Dio fa, allora è un Dio radicalmente ingiusto.
Nelle passate generazioni, i padri e le madri avrebbero ben po-tuto pensare che la promessa di una ricompensa o il timore di una punizione fossero il modo adeguato di educare un figlio, specialmente se pensavano a Dio come a un giudice al di sopra del cielo o se credevano che la ricompensa e la paura fossero forme adeguate di motivare il proprio figlio. Ora sappiamo molto di più sulla condizione umana di ciò che trasmettevano tali modelli di pensiero, largamente abbandonati.
Nel 2009 ho scritto un libro sul perché credo nella vita dopo la morte. E stato pubblicato con il titolo Eternai Life: A New Vision.[1] La direzione da seguire per raggiungere tale nuova visione era espressa nel sottotitolo: “Al di là della religione, al di là del teismo, al di là del cielo e dell’inferno”.
Credo che la vita eterna debba restare per sempre separata dai concetti di premio e castigo, o di cielo e inferno. Si potrebbe vi-vere una vita buona e giusta in risposta alla promessa di una ricompensa o per paura del castigo, ma una vita buona e giusta non è la stessa cosa che una vita piena e ricca d’amore. La base su cui noi cristiani abbiamo avuto la tendenza di giudicare la condotta umana è una norma stabilita per tutti, in virtù della quale si sancisce che abbiamo sbagliato, facendo allora della colpa la principale motivazione del comportamento. Ma non funziona. E non funzionerà. Non so di nessuno che, in ultima istanza, sia stato aiutato dal fatto che lo abbiano fatto sentire colpevole.
Oggi so di molti adulti talmente spaventati dal ritratto presentato dalla Chiesa di un Dio giudice pronto a punire il malvagio da condurre la propria esistenza sotto la spinta non dell’amore ma della paura. Il comportamento giusto motivato dalla paura può essere mai realmente giusto? Se si è giusti per timore di non essere tali, ciò porta qualche senso d’integrità? Un simile comportamento non risulta ancora egocentrico? Non continua a essere guidato dall’istinto di sopravvivenza?
La colpa come incentivo alla bontà deve scomparire dalla Chiesa del futuro. E devono anche scomparire la paura dell’inferno e la promessa del cielo.
Se il Vangelo di Giovanni dice la verità, come credo che sia, la promessa che ci fa Gesù non consiste nel renderci religiosi, morali o veri credenti; non consiste nel motivarci con la colpa, né con la promessa del cielo né con la paura dell’inferno; consiste, secondo le parole scritte da Giovanni, nel dirci di essere venuto “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.
[1] J. S. SPONG, Eternai Life: A New Vision: Beyond Religion, Beyond Theism, Beyond Heaven and Meli, HarperOne, New York 2009.
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Brano tratto dal libro "Oltre le religioni" ed. Gabrielli Editori