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TESI UNO

Il teismo come modo di definire Dio è morto. Non possiamo più percepire Dio in modo credibile come un essere dal potere soprannaturale, che vive nell’alto dei cieli ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà. Pertanto, oggi, la maggior parte di ciò che si dice su Dio non ha senso. Dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare Dio e di parlarne.

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Considerando che questa tesi è determinante per tutte le altre, impiegherò più tempo e occuperò più spazio ad affrontarla ri­spetto a tutte le altre. È importante per noi cristiani ammettere la crisi della fede in cui viviamo, per poter così comprenderne l’ori­gine e riconoscere che non può essere negata né ignorata.

La persona che, a mio giudizio, diede inizio a una nuova visione della realtà che ancora oggi sfida la credibilità del modo tradizio­nale di esprimere la mentalità cristiana fu un devoto monaco po­lacco di nome Niccolò Copernico, che visse in un’epoca lontana come il XVI secolo. Tuttavia, pochi in quel momento furono con­sapevoli delle scoperte di Copernico e delle sue conclusioni, co­sicché, in realtà, egli morì senza aver mai sfidato la coscienza del­la Chiesa. Nessuno comprese la profondità della rivoluzione cui aveva dato origine, tant’è che morì nel seno della Madre Chiesa.

Il successore intellettuale immediato di Copernico fu un astro­nomo italiano del XVII secolo, Galileo Galilei, anche lui, come Copernico, profondamente cattolico. Non solo aveva una figlia suora, ma egli stesso era noto nei circoli più alti del Vaticano, che si fidavano di lui. Era amico di colui che al tempo esercitava il mi­nistero papale, sedendo sul soglio di Pietro. Galileo si era costrui­to il suo telescopio e, come Copernico, studiava il movimento dei corpi celesti, cercando sempre di comprendere la relazione tra gli uni e gli altri e tra tutti questi e la Terra. Ed era giunto a condivi­dere la teoria di Copernico sulla localizzazione del sole al centro dell’universo. Per quanto sembrasse una teoria radicale e rivo­luzionaria, Copernico era sicuro che la relazione della Terra con questo Sole che stava al centro fosse quella di un satellite che gli girava intorno, in un ciclo annuale. Questa idea combaciava con le conclusioni cui Galileo era giunto e rispondeva a molte delle sue domande, motivo per cui, lentamente ma con sicurezza, aveva finito per accettare quella che con il tempo sarebbe stata chiamata “la rivoluzione copernicana”. A differenza di Copernico, tuttavia, Galileo, non viveva in convento. Era un noto scienziato, una fi­gura pubblica a tutto tondo. E neppure si asteneva dallo scrivere e dal pubblicare le sue scoperte. Fu proprio al momento di farlo che scoprì che le sue opere stavano provocando dibattiti e contro­versie che lo avrebbero inevitabilmente condotto a uno scontro diretto con la gerarchia della Chiesa cattolica. In quel momen­to storico, la Chiesa era ancora una potente forza politica. Il suo potere era nella sua pretesa, ampiamente accettata, di avere l’au­torità per parlare in nome di Dio. Ciò significava che i capi della Chiesa cattolica avevano tanto la necessità politica quanto un de­siderio egolatra di controllare il pensiero, definire la verità e inter­pretare la realtà per tutto il mondo. Di certo, qualunque dubbio, da qualsiasi parte venisse, che potesse erodere questo aspetto del ruolo della Chiesa avrebbe senza dubbio rappresentato una sfida alla sua autorità.

Si riteneva che la verità posseduta e preservata dalla Chiesa fos­se stata ricevuta come frutto della rivelazione divina. Si era inse­gnato alla gente a credere che questa verità non solo fosse stata rivelata in Gesù Cristo, ma che fosse anche stata plasmata nei ter­mini pressoché certi di una cosmologia indiscussa e indiscutibi­le. Tale cosmologia poteva essere enunciata in maniera semplice: Dio abitava al di sopra del cielo; la Terra era al centro non solo dell’universo ma anche dell’attenzione di Dio. Lo sguardo divino che tutto vede nel mondo dal suo regno celestiale assisteva Dio nel compito di registrare tutte le azioni e i misfatti di ogni essere umano. Si conservavano registri delle azioni umane, che costitu­ivano la base su cui ogni esistenza umana sarebbe stata giudicata alla fine dei tempi. E quello era il momento in cui si sarebbe anche deciso il destino eterno della persona.

La Chiesa e il suo sistema di fede funzionavano, così, come un sistema di controllo incredibilmente potente del comportamen­to umano. Era questo, in sostanza, che tanto Copernico quanto Galileo sembravano mettere direttamente in discussione. Era una sfida non solo a ciò che si percepiva come la verità, ma anche al potere politico. Non poteva essere ignorata. Così, Galileo venne accusato di eresia. Alla fine, venne condannato. Il castigo abituale per l’eresia a quel tempo era la morte con il fuoco, vale a dire che l’eretico veniva bruciato sul rogo.

Il processo a Galileo ebbe molta risonanza. Non solo le sue idee vennero severamente attaccate, ma gli ecclesiastici incaricati di portare avanti l’indagine le misero anche in ridicolo. La visio­ne di Galileo era considerata contraria alla “Parola di Dio” così come rivelata nelle Sacre Scritture, che, in quel momento, si cre­deva fossero state dettate da Dio in maniera letterale. Se Galileo aveva ragione, la Bibbia e la Chiesa si sbagliavano. Questa era la conclusione ecclesiastica che avrebbe segnato il destino di Gali­leo. Quasi in ogni pagina della Bibbia c’era un racconto secondo cui Dio viveva nell’alto dei cieli, nello strato superiore di un uni­verso organizzato su tre livelli. Dio aveva mandato la pioggia dal cielo ai tempi di Noè e del diluvio (Gen 7). Nel libro della Gene­si, la gente aveva voluto costruire la torre di Babele, talmente alta da toccare il cielo, dove si credeva che vivesse Dio (Gen 13). Era scritto che il patriarca Giacobbe in sogno avesse visto una scala che collegava la terra al cielo e su questa scala vi fossero angeli che salivano e scendevano (Gen 28). Si diceva di Mosè che ave­va ricevuto la Torah da Dio, sceso dal cielo sulla cima del mon­te Sinai per consegnargli direttamente quelle tavole di pietra che contenevano i dieci Comandamenti (Es 20). Nel libro di Giosuè, il successore di Mosè aveva pregato Dio, nel mezzo dei rigori del­la battaglia, di fermare il sole nel suo movimento celeste intorno alla terra, affinché il suo esercito disponesse di più ore di luce per distruggere i nemici (Gs 10). Elia era stato trasportato in cielo, nel regno di Dio, su un carro magico di fuoco trainato da cavalli ugualmente magici, ed era stato sospinto verso la gloria da un tur­bine potente che, inviato da Dio, veniva dal cielo (2Re 2).

I presupposti biblici su cui poggiava l’idea che Dio vivesse nell’alto dei cieli non si trovavano solo in quello che i cristiani chiamano Antico Testamento. Secondo il Vangelo di Matteo, al momento della nascita di Gesù, Dio aveva posto in cielo una nuova stella per annunciarlo (Mt 1). L’autore del Vangelo di Luca scrive che angeli erano apparsi in cielo, nell’oscurità della notte, per annunciare la sua venuta ai pastori che facevano la guardia al loro gregge (Lc 2). Si sarebbe poi detto che Gesù era stato assunto in cielo, al di sopra della terra, per stare con Dio (At 1). Tutte le sezioni della Bibbia presuppongono che la Terra si trovi al centro di un universo disposto su tre livelli.

Galileo aveva sfidato questa antica e universalmente accettata visione del mondo e, in tale processo, aveva destabilizzato questo sapere tradizionale, fino ad allora solidamente costituito. Aveva alterato la forma dell’Universo. L’intuizione di Galileo espelleva Dio dalla sua divina dimora e, in fin dei conti, lo trasformava in un senza tetto. Se Dio non abitava in cielo, dove si trovava? Per gli esseri umani, Dio non poteva vivere in nessun altro luogo. Il pensiero di Galileo, pertanto, scuoteva le fondamenta della vi­sione cristiana del mondo. Non sorprende che al processo fosse ritenuto colpevole di eresia. La condanna era la morte sul rogo. Tuttavia, a causa della sua età avanzata e della sua fragile salute, e grazie ai suoi legami con le alte sfere del Vaticano, si giunse a un accordo con l’accusa. Galileo fu costretto a rinunciare alle pro­prie conclusioni e ad ammettere pubblicamente di essersi sbaglia­to. Accettò anche di non pubblicare mai più le sue idee in alcun mezzo di comunicazione. Infine, dovette accettare una condanna agli arresti domiciliari per il resto della vita. In cambio di que­ste considerevoli concessioni, il tribunale vaticano gli risparmiò la vita. La crisi era stata superata o almeno questo pensavano i leader ecclesiastici.

La verità, tuttavia, non può essere respinta semplicemente per­ché non risulta conveniente, e le scoperte di Galileo avevano la verità dalla loro parte. Nel dicembre del 1991 il Vaticano avrebbe finalmente annunciato che Galileo aveva ragione. A quel punto, i viaggi spaziali erano cominciati. Le scoperte nel campo dell’astro­nomia e dell’astrofisica erano aumentate esponenzialmente. Era stato predisposto il telescopio Hubble e la consapevolezza della vastità dell’universo iniziava a farsi spazio nella coscienza umana in maniera incontrovertibile. Il risultato di questa controversia at­torno a Galileo era che Dio era stato definitivamente espulso. Le antiche interpretazioni sulla configurazione del mondo e sul con­cetto di Dio a essa vincolato iniziavano a venire meno. Le nuove definizioni non si erano ancora chiarite del tutto, era ancora diffi­cile assumerle intellettualmente ed emotivamente.

Il cristianesimo e la sua autorità, tuttavia, cominciavano a tra­ballare. Questo vacillamento sarebbe diventato più intenso, mol­to di più di quanto si percepisse allora, nella misura in cui, nella coscienza umana, iniziavano a farsi strada altre scoperte, in al­tre discipline. Galileo aveva fatto sì che il mondo sperimentasse un periodo di trasformazione e di crescita rapidissime, cosicché, precipitando tutti questi cambiamenti sulla coscienza umana, sa­rebbe presto divenuto ovvio come il cristianesimo, così come era stato inteso tradizionalmente, non trovasse più posto nel nuovo mondo che stava nascendo.

L’anno della morte di Galileo nacque nella contea di Northum- bria, in Inghilterra, Isaac Newton. Era prima di tutto un matema­tico, ma la matematica lo condusse a una nuova comprensione sia del funzionamento dell’Universo sia del mondo. Studiò la causali­tà, la gravità e l’interrelazione di tutti gli esseri viventi. Non c’era posto nell’universo di Newton per un Dio esterno che interviene in maniera soprannaturale nella storia umana. I confini entro i quali si realizzava ciò che chiamavamo “miracoli” si riducevano sensibil­mente. Il concetto di miracolo avrebbe presto iniziato a scompa­rire dal vocabolario umano e, infine, da tutte le nostre aspettative. Un impatto che si sarebbe fatto sentire in molti aspetti della vita.

Quando gli esseri umani cominciarono a capire qualcosa sui fronti atmosferici e sulle loro cause, come pure su altre realtà ge­ologiche, si smise di credere che Dio controllasse fenomeni come gli uragani, le inondazioni, la siccità o i terremoti. Nessuno pensò più che tali eventi naturali fossero strumenti dell’ira di Dio o il procedimento divino per punire le persone per i loro peccati. Gli esseri umani spiegavano ora questi fenomeni come fatti naturali, causati da realtà come i sistemi di bassa pressione in movimento attraverso le acque calde dell’oceano o come lo spostamento del­le placche tettoniche molto al di sotto della superficie della terra. Dio, espulso dal cielo da Galileo, cominciava ora a essere svinco­lato da qualunque funzione relativa ai modelli climatici. In questo momento, l’idea di Dio come un essere esterno a questo mondo e ciononostante disposto e capace d’interferire in esso, batteva già in ritirata. Improvvisamente, gli esseri umani non capivano più perché fosse necessario un essere esterno al mondo chiamato Dio o semplicemente cosa questo Dio facesse. I traumi nel con­cetto tradizionale di Dio avrebbero continuato a farsi sentire man mano che l’esplosione della conoscenza, derivante anche da altre fonti, influiva su di noi. Ora, Dio non solo era senza tetto, ma, progressivamente, stava diventando disoccupato. Non aveva più nessun lavoro da svolgere.

Negli anni ‘30 del XIX secolo, il naturalista inglese Charles Darwin iniziò il suo viaggio intorno al mondo a bordo della Be­agle. Questo viaggio avrebbe raggiunto il suo culmine nelle isole Galapagos, dinanzi alla costa dell’Ecuador, in Sudamerica. Qui Darwin avrebbe trovato prove certe del fatto che l’evoluzione delle specie fosse causata dall’interazione degli esseri viventi con un ambiente in continuo cambiamento. Nel 1859 pubblicò le sue scoperte nel libro L’origine delle specie per mezzo della selezio­ne naturale.[1] [2] Pochi anni dopo, sarebbe seguito il libro L’origine dell’uomo} In quelle opere, Darwin sosteneva che la vita si fosse evoluta nel corso di milioni e anche di miliardi di anni, a partire da una singola cellula. Cosicché tutta la vita era connessa: nessuna specie esisteva in forma permanente, bensì era sempre in diveni­re; l’umanità era sorta dalla famiglia dei primati e il racconto della creazione della Genesi non era corretto né dal punto di vista bio­logico né da quello storico. Iniziava a imporsi nel sapere umano il fatto che non eravamo stati creati, in nessun senso, a immagine di Dio, bensì che Dio era stato creato a immagine dell’umanità. E divenne anche sempre più evidente che gli esseri umani non era­no poco meno degli angeli, come suggeriva il libro dei Salmi (Sai 8), ma, di fatto, poco più delle scimmie. Tutto questo conduceva a conclusioni che destabilizzavano e facevano paura, ma la loro ve­rità sarebbe stata ripetutamente confermata negli anni successivi e oggi è completamente accettata, almeno nei circoli intellettuali.

Più tardi, ma sempre nel XIX secolo, il medico francese Louis Pasteur scoprì i germi e con questa scoperta prese avvio la pratica della moderna medicina. C’era stato un tempo in cui si credeva che la malattia dipendesse da Dio. La si affrontava, pertanto, con preghiere e sacrifici, al fine di spingere Dio a mettere fine a ciò che si riteneva un castigo divino. Ma nella misura in cui si comprese cos’erano i germi, i virus, le occlusioni coronariche, i tumori e le diverse leucemie, il trattamento passò dalla preghiera e dal sacri­ficio agli antibiotici, alla chirurgia, alla chemioterapia, alla radio- terapia e alle misure preventive associate alla dieta e all’esercizio fisico. Una volta ancora, il Dio concepito come un essere esterno, sovrannaturale, pronto a intervenire con i miracoli, veniva espul­so da un altro campo della vita umana e, in tale processo, la medi­cina si secolarizzò sempre di più. E con sempre maggiore rapidità il concetto teista di Dio veniva messo all’angolo nella coscienza umana.

Al principio del XX secolo, il medico tedesco Sigmund Freud iniziò a esplorare la mente umana con il suo studio sulla natu­ra dell’inconscio, sulle emozioni e sulle attività di quella che una volta chiamavamo “anima”. Con questo studio, Freud introdusse nel pensiero occidentale una comprensione completamente nuo­va della condizione umana. Molti dei simboli che un tempo co­stituivano il nucleo del racconto cristiano apparivano ora assai diversi se analizzati nella prospettiva freudiana. Il “Dio Padre” del cielo era una mera proiezione dell’autorità paterna umana? Il potere della colpa, su cui si era basata una parte così importante della vita cristiana, era qualcosa di più di una forma di control­lo del comportamento umano? Questa potente forza della colpa si era proiettata anche nell’altra vita, vita di eterna beatitudine o di eterni tormenti, ma ora, in modo piuttosto repentino, sembra­va derivare non dalla rivelazione divina ma da disordini psichici. Dio, concepito come giudice, cominciò a essere considerato come uno dei modi in cui gli esseri umani affrontano la propria man­canza di autostima e di benessere mentale. Il timore di Dio, che costituiva buona parte del cristianesimo, con le sue immagini del cielo e dell’inferno, iniziò a venire meno. La ritirata di Dio verso l’irrilevanza a causa delle nuove conoscenze era quasi completa.

Negli ultimi anni del XX secolo, il fisico tedesco Albert Ein­stein, che passò buona parte della sua vita adulta all’università di Princeton, in New Jersey, cominciò a studiare quella che si sareb­be chiamata “relatività”. Si scoprì che il tempo e lo spazio non erano infiniti, ma finiti, e relativi sempre l’uno all’altro. Conside­rando che la vita umana si svolge nello spazio e nel tempo, essa si sviluppa anche in mezzo alla relatività. Tutto ciò che facciamo e diciamo, lo facciamo e lo diciamo in mezzo alla relatività dello spazio e del tempo. Ciò significa che non c’è nessuna verità asso­luta. Anche se ci fosse una verità assoluta, non potrebbe essere pensata né espressa nel quadro dell’esperienza umana.

Grazie a questa intuizione, qualsiasi pretesa religiosa di oggetti­vità è venuta meno. Non c’è qualcosa come “la vera religione” o “la vera Chiesa”. Non c’è qualcosa come un papa infallibile o una Bib­bia inerrante. Non c’è qualcosa come un credo eterno o una dottri­na particolare che possa definirsi vera per tutti i tempi. La vita uma­na è vissuta, piuttosto, in un mare di relatività. La vita è un viaggio senza fine in ciò che in definitiva è reale, ma nessuno che sia legato al tempo può conoscere e abbracciare pienamente questa realtà. E così la Chiesa cristiana non potrà mai offrire a nessuno la sicurezza delle certezze. Nessuna istituzione umana, inclusa la Chiesa, possie­de la verità eterna, né può possederla. Gli esseri umani e le loro isti­tuzioni possono solo, per dirla con le parole di Paolo, vedere «come in uno specchio, in maniera confusa» (lCor 13,12).

Questa cronaca dell’articolazione della conoscenza umana dal XVI secolo a oggi, così breve e pertanto imperfetta, ci rende al­meno coscienti del fatto che la maniera in cui gli esseri umani hanno pensato a Dio nel passato è stata stravolta nei suoi fonda­menti. E, tuttavia, nelle liturgie di tutte le Chiese cristiane conti­nuiamo a usare concetti del passato come modello su cui disegna­re il culto. Anche se, intellettualmente, tali concetti sono stati già rifiutati. Così, diciamo ancora «Padre Nostro che sei nei cieli». Una preghiera che si rivolge a un Dio concepito come essere dal potere soprannaturale, che abita nell’alto dei cieli di un universo disposto su tre livelli da cui crediamo ancora, in qualche modo, che controlli il nostro mondo. A questo Dio chiediamo ancora «il nostro pane quotidiano», la venuta del suo regno sulla terra, il perdono e la protezione. Ci avviciniamo ancora a questo Dio, concepito come giudice, in ginocchio, supplicando misericordia, chiedendo favori e cercando guarigione. Quando una tragedia ci colpisce, ancora ci chiediamo perché, e ancora ci domandiamo se tale tragedia sia un riflesso della volontà di Dio di punirci per i nostri peccati. «Che ho fatto per meritare questo?», ci chiediamo.

Definiamo “teismo” questo modo d’intendere Dio. Diciamo che coloro che non credono in questo Dio teista devono essere “a-teisti”. Il problema, tuttavia, non è forse la definizione teistica di Dio più che la realtà di Dio? Il teismo come modo d’intendere Dio è ora una vittima dell’espansione della nostra conoscenza. Un concetto che non ha più senso nel nostro mondo. Non c’è una di­vinità soprannaturale nell’alto dei cieli in attesa di venire in nostro aiuto. Lo spazio è senza confini e noi, gli esseri umani, abbiamo accettato la sua “infinitezza”. Questo linguaggio, pertanto, è privo di senso. Ebbene, ciò significa che Dio non abbia senso? Questa è la questione più importante che il cristianesimo deve affrontare oggi. Possiamo ridefinire ciò che intendiamo per Dio? Possiamo cogliere questo significato in un’altra maniera? Possiamo rinun­ciare alle nostre definizioni teistiche di Dio senza dover negare al tempo stesso la realtà di Dio? Credo che lo possiamo e so che dobbiamo provarci. Se il teismo muore, morirà Dio? Se il cristia­nesimo, come religione, deve sopravvivere, deve sviluppare una comprensione del divino che abbia senso nel XXI secolo. Questa è diventata la nostra massima priorità.

Fu un filosofo greco del VI secolo a.C., di nome Senofane, a osservare che «se i cavalli avessero divinità, queste assomigliereb­bero a cavalli».[3] Il fatto che qualsiasi linguaggio sia un linguaggio umano significa che tutte le divinità che gli umani hanno adorato nel corso della storia tendono ad assomigliare molto agli stessi esseri umani. Sì, abbiamo eliminato dall’idea di Dio le limitazioni umane, ma i tratti umani permangono. Per questo la maggior par­te delle idee umane su Dio si esprime come negazione. La condi­zione umana è finita, cosicché Dio deve essere infinito, o, diciamo, “non finito”. Gli esseri umani sono vincolati a un luogo determi­nato; Dio non deve avere questa pastoia, cosicché lo si definisce “onnipresente”. Gli esseri umani hanno una conoscenza limitata; Dio, per definizione, non deve avere questo limite, cosicché dicia­mo che è onnisciente. La condizione umana è mortale; Dio deve oltrepassare tale limitazione, cosicché diciamo che è immortale. Gli esseri umani sono limitati nel loro potere; Dio non deve avere tale restrizione, cosicché diciamo che è onnipotente. Potremmo proseguire con ripetuti esempi, ma il risultato è sempre lo stesso. Tutti gli dèi che gli esseri umani hanno concepito nella storia as­somigliano sempre agli umani, ma senza i loro limiti. Ricorriamo ancora al linguaggio della liturgia: «Dio onnipotente ed eterno», diciamo nelle preghiere. Ciò che stiamo dicendo è: Dio, tu non sei limitato nel potere o nel tempo. Questo Dio è anche quello che sa tutto, che scruta i segreti del nostro cuore. Questa divinità onni­sciente è in definitiva poco più di una costruzione umana.

Se la comprensione teistica di Dio è morta, allora si pone la questione se è Dio a essere morto o la definizione umana di Dio. Possiamo trovare un modo di parlare di Dio con altri concetti, con altre parole, o Dio è talmente identificato con il nostro lin­guaggio teistico da morire nel momento in cui muore questo lin­guaggio? E questo il nostro dilemma moderno.

La Bibbia ha definito l’idolatria come il culto a qualcosa che è costruito da mani umane. Il teismo è una comprensione di Dio sviluppata da menti umane. Ciò che vi è di più fondamentale e de­finitivo può essere colto nei limiti delle mani o delle menti umane? Non credo. Il teismo è una manifestazione dell’idolatria umana.

Pertanto, respingiamo il teismo come una definizione creata da noi, gli umani, e ci proponiamo di cambiare strada, verso la realtà di Dio. Un passo molto più rivoluzionario di quanto la maggio­ranza di noi possa immaginare, ma questo è il mondo nel quale il cristianesimo deve imparare a vivere.

 

 

 

[1] Ch. Darwin, L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 2011 (origi­nale: The Origin ofSpecies by Means of Naturai Selection, John Murray, London 1859).

[2] Ch. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 2010 (originale: The Descent of Man, John Murray, London 1871).

[3] Senofane di Colofone (580-485), Theology (criticai), n. 5. Disponibile al link: http://home.wlu.edu/~mahonj/Ancient_Philosophers/Xenophanes.htm, accesso: 10 settembre 2014; cfr. in italiano: M. Untersteiner, Senofane. Testi­monianze e frammenti, testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2008.

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Brano tratto dal libro "Oltre le religioni" ed. Gabrielli Editori

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