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IL CORAGGIO DI SUPERARE IL PURO E L'IMPURO

commento a Mc 1,40-45 di Paolo Scquizzato


Nel contesto culturale, sociale e religioso dell’epoca in cui visse Gesù i lebbrosi in Israele occupavano il gradino più basso della condizione dei senza‐dignità, dei veri e propri paria. Condannati a vivere fuori dai centri abitati, erano considerati semplicemente dei morti viventi. Esclusi dalla famiglia di appartenenza, dalla società e soprattutto dall’ambito religioso, vivevano da «castigati da Dio», da maledetti, in quanto dimostrazione concreta e visibile dei peccati commessi. Se eri lebbroso, voleva dire che Dio ti aveva condannato, ti aveva punito; la lebbra era insomma il castigo di Dio inferto a chi avesse peccato.

Questa è la logica dell’Antico Testamento, che possiamo trovare nel libro dei Numeri, per esempio, o nel Secondo libro di Samuele. [«L’ira del Signore si accese contro di loro ed egli se ne andò. La nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa, bianca come la neve. Aronne si volse verso Maria ed ecco: era lebbrosa» (Nm 12,9–10); «Ricada sulla testa di Ioab e su tutta la casa di suo padre. Nella casa di Ioab non manchi mai chi soffra di gonorrea o sia colpito da lebbra o si appoggi al bastone, chi cada di spada o chi sia senza pane» (2Sam 3,29)]. Ancora nel libro dei Numeri il lebbroso «è come uno a cui suo padre ha sputato in faccia» (Nm 12,14), come «un bambino nato morto» (Nm 12,12). Neanche dopo la morte il lebbroso sarà simile agli altri, perché semplicemente non è.

In realtà la lebbra rappresenta il nostro limite, sono gli spazi d’ombra che facciamo fatica ad accettare. La lebbra oggi è tutto ciò che ci impedisce di relazionarci con gli altri. Io sono un lebbroso quando mi trovo a pensare che non merito di essere avvicinato da nessuno, quando penso di essere un fallito, un buono a nulla, quando mi sento sporco perché ho commesso un peccato, e quindi mi ritengo non adeguato a stare nel consesso dei giusti, e — grazie anche a un certo moralismo cattolico — inadatto ad avvicinarmi a Dio.

La lebbra, il limite, il peccato non è ciò che ti separa da Dio, ma è l’occasione per poterti avvicinare a lui, occasione perché Dio possa avvicinarsi

Ebbene, il Vangelo ci ricorda che ciò che sembra allontanarci da noi stessi, dagli altri e da Dio, risulta invece come occasione dell’incontro col Gesù che guarisce, il Dio della vita.

Ecco il paradosso. La lebbra, il limite, il peccato non è ciò che ti separa da Dio, ma è l’occasione per poterti avvicinare a lui, occasione perché Dio possa avvicinarsi.

Quindi non c’è zona d’ombra che abbia il potere di allontanarci dalla fonte della vita. Anzi: il nostro bisogno di guarigione si rivela come diritto ad avvicinarci a lui. Occorre solo riconciliarci con la nostra ombra, con il nostro limite, farlo emergere, chiamarlo per nome, abbracciarlo e dirgli: ti accolgo perché fai parte di me.

«Lo voglio» (v. 41) dice Gesù al lebbroso che gli chiede di essere purificato. Bellissimo! L’amore si nutre solo di un desiderio: che l’amato venga guarito. L’unico desiderio di Dio è che i figli siano guariti. Tutti. A differenza del dio della Legge, del dio della religione che vuole soltanto servi migliori, il Dio della fede vuole figli guariti, splendenti, maturi.

Gesù purifica toccando. Ci ricorda così, guarendo con una carezza, che la religione, di ieri e di oggi, ha il potere di distinguere le persone tra puri e impuri, di separare i giusti dai peccatori, quelli che ce la fanno a forza di prestazioni, dai fragili e i recidivi, che invece non ce la fanno. Ma non c’è bestemmia più grande che separare le persone in nome di Dio o di una presunta legge religiosa, fosse anche divina.

Il giudizio morale non genera mai vita, l’amore che trascende i confini del giudizio sì.

Dio non ha dinanzi a sé figli santi e peccatori, ma solo uomini e donne assetati di felicità, con un incredibile desiderio di essere amati e poter fiorire. L’amore non può distinguere, non può avere figli che vivono fuori dal villaggio, in nome tra l’altro di una legge divina, come abbiamo letto nella Torah. Per secoli abbiamo tenuto fuori dai confini della Chiesa coloro che in nome di una legge solamente umana, ammantata di volere divino, si sono ritenuti lebbrosi, impuri, intoccabili. Erano quelli che, si diceva, «non sono dei nostri», o chi la pensava diversamente, o semplicemente pensava! A una certa Chiesa han sempre dato fastidio le persone che nutrivano un pensiero proprio, e interpellassero soltanto lo scrigno più sacro in loro possesso ossia la propria coscienza. L’istituzione, da sempre, ama le persone che obbediscono, che abbassano il capo. Più facili da gestire. Mi viene alla mente la scrittrice francese Simone de Beauvoir, quando scrive in un ricordo giovanile: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca s’era abbattuta sulla mia nuca, faceva chinare la testa, m’incollava la faccia al suolo; per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà, a qualsiasi gioia».

non c’è bestemmia più grande che separare le persone in nome di Dio o di una presunta legge religiosa, fosse anche divina

Abbiamo tenuto fuori dai recinti della Chiesa le donne, ad esempio. Ma anche i malati di mente, i mancini, gli omosessuali, i divorziati risposati... la lista potrebbe essere lunghissima. E tutti questi sono i lebbrosi di sempre.

Ma Dio non è un giudice celeste. Dio, ci ricorda Gesù, è solo forza vitale che si espande all’interno dell’umano — qualsiasi umano — perché come un fiore possa giungere a sbocciare di bellezza e pienezza d’essere.

La legge, di per sé, per definizione, crea separazione, divide tra coloro che ottemperano ad essa e coloro che le disobbediscono.

Lo intuì già Paolo, fariseo che di leggi se ne intendeva: «La lettera uccide, lo spirito dà vita» (2Cor 3,6).

La legge crea fossato, separazione appunto, e tale separazione produce puri e impuri, obbedienti e disobbedienti, coloro che meritano di essere amati e i maledetti. La legge è sempre diabolica (διαβάλλω [diaballo] = disunire) in quanto separa, divide. L’amore invece non divide, ma sana le ferite, riavvicina, guarisce, senza compiere alcuna distinzione, senza giudicare. Mai.

Ebbene, Gesù è venuto a dirci che l’uomo non è più definito dall’obbedienza o meno ad una norma, non è più definito da una morale. L’uomo, agli occhi di Dio, è prezioso a prescindere, sta al di là del bene e del male, per dirla con Nietzsche. Il filosofo tedesco in quel testo fondamentale che è Al di là del bene e del male scrive: «Gesù disse ai suoi Ebrei: “La legge era per i servi: amate Dio come lo amo io, da figlio suo! Che ne importa a noi figli di Dio della morale?”».

L’amore di Dio ama a prescindere. Dio non applaude, non benedice, non dà qualcosa in cambio perché l’essere umano si comporta eticamente bene.

In altre parole, ciò che Gesù non può accettare, e questo si evince dal vangelo, è che ci sia un gotha di persone preposto a esercitare un potere che si arroga il privilegio di stabilire ciò che va e ciò che non va fatto; definire il limite alla liceità dei comportamenti; dire ciò che è bene e ciò che è male. Questa élite arriva ad arrogarsi il diritto di decretare chi è buono e chi è cattivo per poi separare questi da quelli in nome di una legge, che a conti fatti è sempre una legge di uomini, anche se spacciata per legge divina. «Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» ha detto Gesù in Mt 15,9.

Gesù è venuto proprio con lo scopo di eliminare la distinzione tra potere religioso e umano, tra sacro e profano

Ricordiamo, in riferimento a questa guarigione, che poiché la lebbra era ritenuta una malattia religiosa, era di competenza dei sacerdoti fare la diagnosi e dichiarare eventualmente la segregazione (Lv 13,34 ss.). Agli stessi spettava verificare la guarigione e riammettere il paria nella comunità dei viventi (Lv 14,1 ss.). Tra l’altro, stando all’Antico Testamento, i lebbrosi guariti e riammessi sono pochissimi, anche perché un’attestata guarigione lasciava ipotizzare un ripensamento da parte di Dio, che aveva inferto con la lebbra la sua punizione.

Insomma, Gesù è venuto proprio con lo scopo di eliminare la distinzione tra potere religioso e umano, tra sacro e profano. La parola «sacro» nei vangeli non esiste, perché la sacralità è un problema della religione e non della fede. Voglio citare una definizione particolarmente efficace di Ermanno Olmi, il grande regista: «il sacro è una crosta di idolatria messa sulle cose o su alcune persone».

In questa guarigione Gesù ha tolto di mezzo la causa della segregazione del lebbroso — il peccato — riammettendolo nel contesto sociale, mostrandosi liberatore dell’uomo, dell’escluso, dell’emarginato. Gesù non può accettare una separazione in nome di Dio, perché Dio non separa; come si è accennato sopra è diabolico ciò che separa, non l’amore. L’amore sempre accoglie, reintegra.

La nostra religione ha fatto fino a tempi recenti — e in molti casi continua a fare — della purezza il centro della morale, servendosi di preti che, in qualità di guardiani del tempio, hanno svolto il compito di controllori, autorizzati — non certo dal Vangelo e tanto meno da Cristo — di segnare il discrimine tra lecito e non lecito. Abbiamo fatto ammalare generazioni di persone in nome della purezza, intesa sempre alla fine in chiave sessuale. Tutto era impuro, illecito. Era la morale — come afferma il teologo e psicanalista tedesco Eugen Drewermann — del centimetro quadrato: quale parte del corpo fosse lecito mostrare, e quale coprire.

È vero, Gesù nel discorso della montagna parla dei puri di cuore. Ma non si tratta della purezza morale. La purezza evangelica è disponibilità a lasciarsi attraversare dalla luce. Si è puri come un diamante quando si è aperti, così vasti da lasciarsi attraversare dalla luce. Come dice l’attore e scrittore Alessandro Bergonzoni: forse dovremmo insistere meno sul voto di castità, ma più sul voto di vastità. Dobbiamo diventare vasti, talmente vasti da lasciarci attraversare dalla luce. Questa è la purezza evangelica. Lasciarci trovare disponibili, non ingolfati di cose, oggetti, desideri.

Gesù è venuto a riammettere i lebbrosi, a dire che non c’è una malattia della pelle, non c’è peccato, colpa, infamia che meriti di far vivere l’uomo fuori dal villaggio, separato, condannato. Gesù toccando un paria gli toglie da dosso tutta l’impurità di cui è sempre stato fatto carico dai puri, dai religiosi di tutti i tempi. Ci sono persone che si sentono sporche, lontane, messe da parte, che si sentono sempre in colpa, sempre additate, lebbrose, per delle fragilità, delle mancanze commesse. Gesù non può ammettere questo tipo di segregazione e delimitazione: una persona che abbia il diritto di essere se stessa è possibile solo in una religione che non escluda e non emargini nessuno. Solo lì non ci sono e non ci saranno più lebbrosi.

Che cosa ci insegna allora questo racconto? Che dovremmo imparare a vivere con lo stile di Gesù, tendere la mano a tutti gli impuri che ci circondano e dire loro: «Voglio che tu sia riammesso; sei più grande del tuo sbaglio, della tua fragilità, del tuo peccato, della tua storia». Dovremmo avere il coraggio e la forza di andare incontro ad ogni lebbroso, per ridonargli il sentimento elementare dell’innocenza e della purezza di tutta una vita.

Questo è il vero miracolo di questo brano: la manifestazione di un amore, di una forza divina che vuole che noi siamo semplicemente esseri umani.

Qui, e in generale al centro del Vangelo, non c’è più la colpa, ma il danno. Per questa ragione non dovremmo più tanto concentrarci sulla colpa, il peccato, ma sul danno e quindi sulla guarigione. A noi gente di Chiesa è chiesto anzitutto di guarire le conseguenze del male, e non sanzionare chi l’ha commesso. Il primo grande mandato di Gesù è quello di andare a guarire i malati, non a punire chi ha commesso il peccato.

Johann Baptist Metz, grande teologo tedesco, ha insistito molto sul fatto che nel Vangelo Gesù non si fissa mai sul peccato dell’uomo, ma sulla sua sofferenza e sul suo bisogno, per soccorrerlo.

Gesù è quella presenza che, col suo stare accanto alla vita diminuita e fragile, permette che lentamente essa possa ricominciare a fiorire, a credere in se stessa, affinché le persone che hanno peccato, che hanno fatto il male non si sentano più sporche, ma possano cominciare finalmente a credere in loro stesse e nella propria bellezza interiore.

Gesù dice a ciascuno di noi di guardarci dentro, dove ci sono quella forza e quella bellezza che ci consentono di fiorire fino a portarci a sbocciare in tutto il nostro splendore. «Io ci credo», dice Gesù, «ora comincia a crederci anche tu».


(brano tratto da "La ferita e la luce" di don Paolo Scquizzato - ed. Effatà)

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