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L'Amore è già in se stesso santo

A poco più di un mese dalla pubblicazione del Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede ad un dubium circa la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso, per non abbassare la guardia su un argomento che rischia di diventare un vero boomerang (e ce lo auguriamo) per il Clero che si è schierato a favore di quanto enunciato dalla Congregazione stessa, proponiamo qui di seguito una breve ma intensa riflessione del prof. Augusto Cavadi dal titolo "L'AMORE FRA OMOSESSUALI HA BISOGNO DELLA "BENEDIZIONE" DI QUALCUNO ?" pubblicato su "Repubblica - Palermo" il 18.03.2021.

Augusto è capace di entrare come con una luce dentro la coscienza dell'uomo, credente o non credente e, senza ferire nessuno, porre delle fondamenta su cui poter edificare il proprio pensiero.


 


La Congregazione per la dottrina della fede (in termini laici, civili, si direbbe il Ministero vaticano per l’ortodossia) ha dichiarato “illecite” le benedizioni concesse alle coppie omosessuali. Sino a pochi decenni fa valeva l’adagio “Roma locuta, causa soluta est” (Roma ha parlato, la questione è risolta), ma oggi per fortuna non è più così. Gli interventi di vari preti palermitani – e non tra i meno autorevoli per dottrina e impegno pastorale - riportati sulla nostra edizione di ieri lo attestano: con toni solo leggermente diversificati, sono comunque unanimi nell’appellarsi al messaggio evangelico come istanza prioritaria rispetto ai documenti vaticani. Le opinioni che mi sono arrivate, attraverso vari canali anche diretti, di amiche e amici omosessuali che non hanno abbandonato la professione cristiana (sia cattolica che protestante) sono – ovviamente – sulla stessa lunghezza d’onda, anche se contrassegnate da una più marcata venatura di stupore (il documento è stato previamente approvato da papa Francesco), di amarezza e di indignazione.

la “benedizione”, secondo la Bibbia, è un’azione dell’essere umano che – davanti a un dono della vita – avverte l’esigenza spontanea di “dire bene” di Dio.

Se da una parte condivido queste preoccupazioni del mondo delle persone impegnate in relazioni omoaffettive, dal momento che notizie come queste travalicano i confini della Chiesa cattolica e influenzano – più o meno consapevolmente – la mentalità dei cittadini in generale (accrescendo i rischi dei pregiudizi e dei conseguenti comportamenti omofobi) , dall’altra non posso evitare di chiedermi: ma non stiamo esagerando? In una fase storica in cui il numero dei matrimoni religiosi, in chiesa, è in calo crescente rispetto ai matrimoni civili, in municipio, è davvero il caso di dare tanta importanza (sia pur nella contrapposizione dialettica) a ciò che opina un’istituzione ecclesiastica in palese crisi di consensi?

A questa considerazione generale, di ordine sociologico, ne vorrei aggiungere un’altra più specifica, di ordine teologico. Probabilmente non è a tutti noto che la “benedizione”, secondo la Bibbia e la Tradizione più antica, non è prima di tutto un’ azione di Dio né direttamente né attraverso suoi (veri o presunti) rappresentanti. E’ piuttosto un’azione dell’essere umano che – davanti a un dono della vita – avverte l’esigenza spontanea di “dire bene” di Dio.

Etimologicamente, ed essenzialmente, non è Dio che benedice il pane sulla nostra tavola o un neonato o una coppia di innamorati: siamo noi, se credenti in Lui, che ne “diciamo bene”, lo ringraziamo, lo lodiamo, per ciò che interpretiamo come manifestazione della sua benevolenza. L’amore – in tutte le sue forme – è già in sé stesso santo (anzi, secondo la Prima Lettera di S. Giovanni, è manifestazione nella storia del Dio che è Amore): ritenere che la “benedizione” di un prete lo possa legittimare o purificare o rinforzare è superstizione antropomorfica. Ciò che un prete, una madre di famiglia, un ragazzo possono fare è “bene-dire” di Dio per quell’amore che sta accadendo sotto il loro sguardo ammirato. Questo diritto-dovere, per un credente, di parlare bene di Dio, e a Dio, nessuna istituzione umana (per quanto ‘sacra’ possa auto-interpretarsi) lo può strappare a chicchessìa.

Augusto Cavadi


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