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Per una nuova teologia. Peccato originale e redenzione

di Ermanno Arrigoni


Il primo ad avere dubbi sul concetto tradizionale di peccato originale è stato il gesuita francese, sacerdote, geologo e paleontologo Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). «Come geologo e paleontologo», scrive P. Trianni, «Teilhard non poteva prendere alla lettera quelle pagine bibliche e la comprensione teologica tradizionale del peccato originale, visto che la scienza dimostrava incontestabilmente che non c’era mai stato un giardino dell’Eden o una prima copia» (P. Trianni, Teilhard de Chardin. Una rivoluzione teologica, Edizioni Messaggero, Padova 2018, 50). Ugualmente Teilhard riteneva inaccettabile l’idea che la morte degli uomini fosse una conseguenza del peccato originale, dal momento che la disgregazione della materia è un fatto della natura. Nel 1920 Teilhard ottenne l’incarico del corso di Paleontologia e di Geologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Nel tentativo di conciliare la teoria evoluzionistica e la dottrina del peccato originale, espresse opinioni su di esso non conformi alla dottrina ufficiale della Chiesa in un testo inviato ad alcuni teologi di Lovanio.



Nel 1922 scrisse un testo più completo che mandò in via confidenziale ad alcuni teologi gesuiti della Facoltà Teologica di Lione-La Fourvière. Il testo fu diffuso e i suoi superiori della Compagnia di Gesù lo costrinsero a dimettersi dall’insegnamento, lo invitarono a non pubblicare più nulla su questo argomento e a traferirsi in Cina, dove rimase, con qualche rientro, dal 1926-1946. Scriveva Teilhard in una “Nota su alcune rappresentazioni storiche possibili del peccato originale” (in P. Teilhard de Chardin, La mia fede, Queriniana, Brescia 1994, 53): «Più noi conosciamo il passato, meno posto troviamo per Adamo e il paradiso terrestre».



Cosa dire oggi del peccato originale? Nei Vangeli Gesù non parla mai di un peccato delle origini, né di Adamo, né di Eva, né di un peccato che si trasmette ai discendenti di Adamo. Siamo stati battezzati da bambini per togliere questo peccato, ma da come parla Gesù dei bambini e da come li tratta nei Vangeli, non c’è traccia in essi di alcun peccato originale, anzi i bambini diventano il modello che occorre seguire per entrare nel regno di Dio. Gesù li benedice, li abbraccia e dice: «Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). Altro che Limbo per i bambini morti senza ricevere il battesimo, come si diceva una volta! Gesù spesso prende come paragone i bambini: «Gli presentarono dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproveravano. Gesù al vedere questo si indignò e disse loro: Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite; a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio» (Mc 10,13-16; Mt 19,13-15; Lc 18,15- 17). Dopo la disputa tra i discepoli su chi fosse il più grande tra di loro, Gesù prese ancora un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,36-37; Lc 9,47-48). Se Gesù si identifica con i bambini, dove è il peccato originale?



Il racconto di Genesi 3 è un mito, un mito però significativo: l’autore voleva spiegare come mai ci fosse il male nel mondo; un problema anche oggi non risolto dal punto di vista teologico. L’esistenza del male nel mondo (guerre, 70 milioni di morti nelle due ultime due guerre mondiali, oggi la guerra in Ucraina, stragi, Auschwitz, Stalingrado, tsunami, terremoti, morti innocenti, bambini, ecc.) e l’esistenza di Dio, per me resta un mistero. Occorre riconoscere i limiti del nostro cervello, pur meraviglioso, come possiamo constatare ogni giorno; gli stessi scienziati dicono che noi conosciamo solo il 5% dell’universo in cui siamo immersi. Dio stesso è un mistero; solo la fede in Gesù ci fa conoscere qualcosa di lui.



L’apostolo Paolo riprende questo mito nella lettera ai Romani: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato… Ma il dono di grazia non è come la caduta; se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia dal solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti… Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo, tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,12-19).



Sul peccato originale è stata costruita una grandiosa teologia a partire da S. Agostino che su di esso ha elaborato una teologia che ha avuto un influenza enorme, anche dal punto di vista sessuale, sulla Chiesa e sulla cultura occidentale. Agostino, come scrive Hans Küng, «ha storicizzato, psicologizzato e soprattutto sessualizzato il peccato originale di Adamo che per lui diventa… un peccato ereditario proprio per via del suo fondamento sessuale. E questo peccato ereditario con l’atto sessuale e la bramosia carnale=desiderio egoistico (concupiscenza, libido sessuale) a esso connessi, si trasmette ad ogni essere umano» (Hans Küng, Salviamo la Chiesa, Rizzoli, Milano 2011, 103-104).



Con l’evoluzione e con lo sviluppo della scienza (come è stato per Galileo con la rivoluzione copernicana), non c’è posto per un giardino dell’Eden, e per un peccato originale. Dove collocarlo? E con quale specie di uomo: Pitecantropo, Neanderthal, Sapiens? Cosa dire allora? Come si può spiegare l’origine del male nel mondo e del peccato? Non resta che una via: l’evoluzione. Noi Sapiens deriviamo dagli animali, dai primati (gorilla, orango, scimpanzè): un ramo di questi ha dato origine alla nostra specie, da loro abbiamo ereditato sia gli aspetti positivi (l’istinto della riproduzione, l’amore per i cuccioli, la preoccupazione di provvedere al cibo per loro, ecc.), sia gli aspetti negativi (violenza, aggressività, egoismo, lotte, uccisioni, ecc.), con la differenza che gli animali uccidono qualche altro animale per il cibo o per il territorio, mentre noi Sapiens, da quando esistiamo (300-200 mila anni fa) abbiamo caratterizzato la nostra storia da continue guerre (oggi la guerra in Ucraina), violenze di ogni tipo, stragi di donne, bambini, giovani soldati, vecchi, fino a raggiungere l’apice con le due guerre mondiali del secolo scorso con la morte di 70 milioni di esseri umani. Da questo punto di vista siamo peggio degli animali.



Gesù Cristo è venuto a liberarci da tutti questi mali, da questi peccati tremendi; non c’è più una felix culpa, come si canta nella settimana santa, alla quale si deve l’incarnazione di Cristo; non c’è più la riparazione di una colpa originale che avrebbe offeso Dio in maniera irreparabile costringendolo ad inviare suo Figlio per riparare ai peccati degli uomini, non c’è più un sacrificio espiatorio di Cristo al Padre, non c’è più una soddisfazione vicaria sulla croce. Il concetto di Dio che troviamo nei Vangeli, il Dio di Gesù, non è un Dio Moloc che vuole il sacrificio di suo Figlio, ma un Padre misericordioso: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36); l’immagine di Dio che ci dà Gesù è quella della parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32). È il padre che va incontro al figlio: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò… Il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa». Questo Padre poteva volere il sacrificio del proprio Figlio per espiare i peccati degli uomini? Non c’era un’altra via, per esempio quella dell’amore? «Dio è amore» (1Gv 4,8), quindi non può non esprimersi se non in una relazione d’amore; poteva volere un sacrificio tremendo come la crocifissione di suo Figlio per i peccati degli uomini? La Messa rinnova questo sacrificio di Cristo al Padre; ma di quanti sacrifici ha bisogno il Padre? Nelle lettere di Paolo e negli Atti degli apostoli, quando si rinnova il ricordo della cena di Gesù, non si parla né di sacerdote, né di altare, né di sacrificio. Nelle parole della consacrazione del pane nella Messa è stata fatta un’aggiunta grave, cioè è stata inserita la parola “sacrificio” («Prendetene e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi»). La parola “sacrificio” non compare nelle quattro formule con cui ci sono state tramandate le parole dell’ultima cena di Gesù (1Cor 11,23-26; Lc 22,15-20; Mc 14,22-25; Mt 26,26-29). Così per il vino sono state aggiunte le parole «eterna alleanza» che non ci sono nelle quattro formule originarie.



Occorre dunque fare, dal mio punto di vista, una nuova teologia sul concetto di Redenzione.

Due teologi contemporanei, M. J. Borg e J. D. Crossan nel libro Il vero Paolo. Visionario radicale o icona conservatrice? (Claudiana, Brescia 2018) hanno sostituito al concetto tradizionale di una Redenzione sacrificale, espiatrice, una Redenzione partecipativa, che meglio interpreta i testi del Nuovo Testamento ed è compatibile con la teoria dell’evoluzione: Cristo è venuto sì per liberarci dal male e dal peccato nel senso di sopra (cioè dovuto all’evoluzione), ma è venuto soprattutto, non per un’espiazione vicaria nel senso tradizionale, ma per una Redenzione partecipativa, è venuto cioè per far partecipare i credenti alla sua vita, alle sue sofferenze, alla sua morte e alla sua risurrezione, cose grandiose per chi crede. Questa Redenzione partecipativa per i credenti avviene con il battesimo, come scrive l’apostolo Paolo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nelle sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi, è stato crocifisso con lui» (Rm 6,3-6); «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo; tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17); «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo è più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,19); «Perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti» (Fil 3,10-11).


Il concetto di Redenzione partecipativa è presente anche in altri testi del Nuovo Testamento: «Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare» (1Pt 4,13); «La sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. 4 Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina» (2Pt 1,3-4); «Siamo diventati partecipi di Cristo, a condizione di mantenere salda fino alla fine la fiducia che abbiamo avuto fin dall’inizio» (Eb 3,14); «Costoro ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità» (Eb 12,10).


Ancora di più: non solo con questo concetto di Redenzione partecipativa partecipiamo alla vita di Gesù, alle sue sofferenze, alla sua morte e alla sua risurrezione, ma partecipiamo anche alla stessa vita con il Padre. Nel sublime discorso di Gesù ai discepoli dopo l’ultima cena, il Nazareno dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).


Siamo all’inizio del XXI secolo, le scienze avanzano, la Chiesa e la teologia devono tener conto di questo, per non rifare l’errore fatto con Galileo: 2mila anni fa non potevano saper nulla né della rivoluzione copernicana, né dell’evoluzione. Ciò che non può essere toccato è il kerygma cristiano delle origini, come lo troviamo nelle più antiche confessioni di fede, soprattutto nelle lettere autentiche di Paolo, dove non c’è la dottrina del peccato originale, come non c’è né nel Credo, “simbolo degli apostoli”, né nel Credo “niceno-costantinopolitano”.


Da quanto ho detto, dal mio modesto punto di vista, che si basa però sul pensiero di Gesù e di Paolo (ho pubblicato da poco: Il pensiero di Gesù e di Paolo. Un confronto, Aracne, Roma 2021), occorre fare una nuova teologia sul peccato originale e sul concetto di Redenzione; non è più possibile sostenere la dottrina tradizionale. Se non c’è stato un peccato originale, l’idea di una Redenzione espiatoria non ha più alcun senso. L’idea di una Redenzione partecipativa è una visione teologica più profonda e attuale di quella sacrificale ed è compatibile con la teoria dell’evoluzione dei nostri tempi.




Ermanno Arrigoni è laureato in Filosofia, dottorato in Teologia alla Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale di Milano, ha insegnato Storia e Filosofia al liceo.

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